Quella Volta…

Buonasera signori e signore, scusate la mia tranquillità di stasera ma come capita a volte ci si ferma a riflettere all’oggi, al futuro e a ieri. Sono tre entità che volendo non vanno d’accordo. L’oggi non sopporta il domani come il futuro e di principio un’anti ieri. Sono tre specchi uno in contrapposizione dell’altro. Si cercano e non si trovano forse perché sono dispari. Sfortunatamente mi capita di essere in tutti e tre, a volte vedo il futuro e a volte vivo il presente, come certe volte ricordo il passato. Oggi per esempio mi è capitato di rivedere il passato. Guardavo dall’alto di un ottavo piano degli uomini che sembravano frenetiche formichine che mi portavano a vivere questo presente, poi alzavo la testa e guardavo l’orizzonte e intravedevo il futuro. Di questo futuro non vedevo niente, solo un colore unico o meglio dire un mix di colori, dove non si può riconoscere quello giusto da cavalcare spinto dalle onde del destino. Poi mi giro e vedo la finestra dove guardo me stesso e il suo lungo ieri. Una luce che riflette sul vetro e mi vengono in testa dei ricordi che avevo messo in un invisibile cassetto della mia mente. Quella luce riflettente di un pallido sole. Un sole che da giorni stenta a farsi denudare dei propri raggi. Rido e penso a quel periodo, precisamente quel fottuto mese di luglio di alcuni anni fa.
Non saprei quantificare quanti anni fa. Non penso agli anni passati ma al periodo e a cosa successe quel incredibile e famigerato mese di luglio in Angola nella vecchia città Nueva Lisboa poi rinominata Huambo. Se siete pronti vi racconto la storia ma non aspetto nessuno, i ritardatari si possono attaccare al tram come si dice qui a Milano. Può darsi che domani questo post lo cancelli e quindi il ritardatario non solo si è perso la storia ma anche uno svago che gli possa garantire una serena dormita stanotte. Pronti…3…2…1…Via! C’era da costruire una scuola per un villaggio che distava circa 30 km dalla città centrale. La mano d’opera scarseggiava. In quel periodo c’era una piccola guerra civile da quelle parti. Niente di importante, anche perché la guerra la si faceva da altre parti dell’Angola, verso il nord e il sud della nazione Nei villaggi passavano solo ad arruolare. In cambio di soldi si cercavano soldati che in poco tempo sarebbero diventati mercenari e da quelle parti facevano comodo un po’ di banconote per poter mantenere la famiglia. Per questo mancava mano d’opera era più redditizio andare in guerra che costruire una scuola del cazzo. Qui nasce il mio e del mio socio l’obbligo di andare in Angola a sostituire chi era incaricato di costruirla. Chi aveva messo dei soldi per quella fottuta scuola era proprio il governo angolano presieduto da Jose Eduardo Do Santos che fu un grande nel’attenuare il conflitto tra le due fazioni in lite. Uno dei due litiganti era sovvenzionato dalla Russia e l’altro dagli Stati Uniti. Jose Eduardo Santos fu un genio a mediare questa piccola guerra civile. Nel frattempo aveva commissionato questa fottuta scuola in un villaggio in prevalenza di etnia Ovimbundu. Un’etnia di religione oltretutto cristiana, essendo stata l’Angola una fortissima colonia portoghese, infatti la lingua prevalente era portoghese e anche lo spagnolo. Era da finire questa scuola entro il 31 luglio e mancava appunto la mano d’opera. Un mese per costruirla. Un’impresa gigantesca che richiedeva un lavoro in stile “A Cottimo.” Un modo di lavoro in voga qualche anno fa. Il lavoro a cottimo consiste che più in tempo veloce finisci e più incassi. Siamo dovuti partire per l’Angola Io e il mio socio Vladimir. A cercare mano d’opera a nostro modo. Un modo particolare per reclutare fu negli ultimi giorni di giugno. Si trovarono alcuni abitanti di un villaggio vicino con la promessa di soldi, un camion pieno di carta e biro per poter scrivere e un camion pieno di coca cola. Fu un successo, furono trovati un bel gruppetto di pazzi ma mancava il catrame. Il catrame si era perso tra le strade e la jungla. Faccio presente al presidente Do Santos che il camion di catrame inspiegabilmente si era perso. Allora in tempo di record arrivano all’aeroporto due aerei merci con tutto l’occorrente. Nella mia richiesta fatta in Italia mandai un fax con la lista del materiale e una seconda lista con una trentina di scatole con dentro risme di carta, un paio di scatole con dentro migliaia di biro per poter scrivere e un bancale con migliaia di lattine di coca cola, migliaia di bottiglie in plastica di acqua naturale e dei bottiglioni di vino. Dall’altro aereo merci fu scaricato su dei camion il resto del materiale, uno pieno di catrame liquido e gelatinoso, un ‘altro camion portava lunghe e strette assi di legno e un terzo camion pieno di lastre d’alluminio anch’esse arrivavano dall’Italia. Le lastre servivano a fare il tetto. Lastre lunghissime 12 metri per 3 di larghezza. C’era tutto, pure il cemento preso a Nueva Lisboa grazie ad un vecchio pazzo che faceva avanti e indietro con un motocarro per giorni e giorni a portare i sacchi di cemento e tra un viaggio e l’altro portava pure i mattoni. Un pazzo che partiva la mattina sobrio per poi trovarsi a sera ubriaco. Così brillo che si addormentava lungo il sentiero in compagnia oltretutto di un cane cieco da un occhio. A quel cane gli avevo dato il soprannome di “Totaricchio” sembrava avesse un occhio di vetro, invece ne era proprio sprovvisto ma ci vedeva bene quando doveva infilzare qualche cane femmina. In quel mese ne avrà messe incinte parecchie. Arrivava con il suo padrone pazzo e quel motocarro del cazzo che per farlo partire bisognava spingere ogni volta. Lo avevo convinto con delle bottiglie di vino che avevo fatto arrivare dal’Italia. Al pazzoide a ogni viaggio con il motocarro dal villaggio a Nueva Lisboa e da Nueva Lisboa al villaggio gli riempivo un boccale di vino. Alla sera non tornava neanche a casa, vedevi il motocarro parcheggiato e lui sdraiato in terra che russava come un motore a scoppio con la testa appoggiata alla ruota di scorta e totaricchio sdraiato con la testa appoggiata sulla gamba del vecchio. Che coppia, quante risate che mi ero fatto. I lavori andavano bene ma non c’era tempo da perdere, con una piccola gru arrivata sempre da Nueva Lisboa si prendevano le assi di legno e si imbrattavano dentro una vasca gigantesca stracolma di catrame liquido. Nero quanto il buco dell’inferno. Immaginatevi il catrame liquido sotto un sole cocente, queste assi che colavano lungo il tragitto dalla vasca al tetto, lasciando una scia nera lungo il terreno, bastava che passava uno con la sigaretta in bocca che diventava uno spiedino.
Le assi servivano da supporto successivo delle lastre, dovevano essere imbrattate di catrame per proteggerli dalle intemperie, questi furono gli accordi, forse avevano paura delle cagate degli uccelli. Avevo messo una guardia al controllo del catrame perché qualche cretino aveva sparso la voce che c’era nel villaggio una vasca arrivata dal continente occidentale piena di coca cola. Potevi rischiare di trovarci qualcuno che se ne beveva quel tanto da rimanerci secco pensando di trovare la coca cola che in quei posti era come l’oro. Un vecchietto seduto su di una sedia che avevo messo a guardia del catrame tendeva ad addormentarsi. Alla mattina prima di salire sul tetto mi riempivo le tasche di piccoli sassi. Dei piccoli sassolini che andavo a raccogliere per il villaggio. Puttana Eva sembravo un deficiente anche agli occhi di un bambino che rideva come un pazzo, difatti si piazzava dietro un albero a ridere mentre mi vedeva chinarmi a raccogliere il nulla, erano così piccoli i sassi che sembravano invisibili. Ogni volta che notavo il vecchietto che si addormentava dal tetto lo colpivo sulle gambe che di sobbalzo si riattivava. Cazzo!!! che vita di merda. Avere occhi dappertutto in mezzo a quei disgraziati che ci vedevano come degli Dei provenienti dal continente occidentale. I giorni passavano e il catrame cambiava anche il colore della mia pelle. Diventavo nero, il riflesso del sole sul catrame liquido, stavo quasi nudo tutto il giorno, avevo solo dei pantaloncini quel tanto da coprirmi il biscotto e un paio di scarpe reebok senza lacci portatemi dal pazzo in motocarro, chissà dove e da chi li aveva presi. Quelli che avevo portato da Milano mi erano durati solo un giorno, quel tanto da capire quelle povere scarpe di volere morire. Prendevo le assi di legno con i guanti che erano diventati con il tempo le mani del demonio e le inchiodavo sulla struttura. Migliaia di chiodi, migliaia. Si sentiva il solito rumore assordante di chi sta picchiando la porta degl’inferi. C’era un ragazzo che faceva su e giù con una corda, il secchio saliva pieno e scendeva vuoto. Un’altro ragazzo al suolo che svuotava le scatole di chiodi su quel secchio oltretutto bucato. I buchi furono coperti con delle grandi foglie di alberi appiccicate con decine di sputi. Non sto scherzando avevo detto agli abitanti di sputare tutti insieme dentro al secchio. Sembravano le olimpiadi dello sputo, creando un ilarità nel villaggio fuori dal comune. Alla fine fecero della lava mucosa che a guardarla veniva da vomitare, cazzo che schifo. Poi molte foglie una sopra l’altra. Il secchio sputato durò tutto il tempo dei lavori. Ci fu una bella atmosfera con il tempo, conviviale, soprattutto dal pomeriggio quando il motocarro del vecchio pazzo portava alcune birre fresche ma così fresche da poter sentire sulla schiena il grido d’orgasmo degli Dei del vecchio pianeta Saturno. Puttana Eva come scendeva quella birra. La bevevo a piccoli sorsi dal rendere quel momento unico. A dieci metri d’altezza dal suolo sdraiato sul tetto sopra di un’asse, alzavo la testa a bere e guardavo il cielo e speravo che scendesse qualche idiota che sta sul mondo degli Dei chiedendomi di assaggiare. Fanculo! Si lavorava per 12 ore al giorno, c’era da finire entro il 31 di luglio se no erano cazzi amari. Alla sera mi piazzavo su di un’amaca dopo aver mangiato carne e legumi in scatola. L’acqua era rigorosamente in bottiglia, non mi fidavo del cibo del posto ma poi piano piano tra assaggi vari ho anche apprezzato qualcosa. La sera era l’unico momento di riposo. Ricordo la prima volta che mi feci un caffè usando una caffettiera portata dall’Italia cuocendolo su di un fornellino a gas. Alcuni abitanti del villaggio mi guardavano fare il caffè come se stessi preparando un morto alla sepoltura con quelle facce da cazzo. Una sera mentre ero sull’amaca a guardare il cielo, stanco, distrutto e senza neanche la forza di alzarmi, spuntarono due angeli. Uno per il mio socio e uno per me provenienti da quale mondo non so. Tra le mani tenevano una ciotola con dentro un intruglio liquido che dal’odore sembrava buono. Oddio! Non capivo chi fosse in un primo momento poi guardando bene erano due donzelle con addosso una gonnellina con uno spacco laterale. Rimanemmo stupiti io e il mio socio. Wow! Come diceva Dante Alighieri nella sua Divina Commedia “Non vidi mai simile a questa” Era riferito alla donzella che aveva il mio stesso colore di pelle nera come il carbone, il suo era naturale il mio era innaturale. Preso dalla deficienza senile non mi accorsi su cosa ci fosse dentro quella ciotola pensando di essere in qualche isola sperduta del purgatorio, dove i due fratelli mi donarono l’elisir dell’immortalità in forma liquida. Ingurgitai quello che volendo poteva essere un veleno, senza rendermene conto perché ero preso a palpare le cosce dell’entità angelica. L’unica cosa che notai in quella gonnellina fu la scritta in verticale “Valentine” Mi rimase in mente quel nome, pensavo di sognare o magari ero morto di fatica e il padre degli Dei mi aveva mandato sulla terra un gioco a forma di tette. Io palpavo le chiappe e lei sorrideva, pensavo che avesse una paresi o magari ero io che sognavo. No! non potevo fare nulla, avevo il biscotto che si era messo in sciopero, dovuto soprattutto alla fatica muscolare del mio corpo disteso su di un’amaca che aveva avvolto tra le sue braccia tutto ciò che rimaneva di me. Il bastardo del biscotto era restio a fare ginnastica da camera. Quel biscotto amico di tante battaglie aveva deciso che non era in grado di soddisfare le mie voglie. Ringraziai il capo del villaggio per il dono ma decisi di non consumare. Per fortuna mancavano un paio di giorni e la scuola era finita a tempo record. Il presidente Do Santos poteva inaugurarla con tutti gli invitati del menga. Io e il mio socio non vedevamo l’ora di tornare nel nostro mondo. Neri come il carbone, ero irriconoscibile, nerissimo con i capelli che dal sole e dal riflesso del catrame li avevo quasi ossigenati. Sembravo un nero ossigenato, che roba gente. Però ampiamente soddisfatto. Nel tornare a Milano in aereo il mio socio, il Vladimir si mette a fare il suo solito sorrisetto del cazzo come se aveva qualcosa che gli rullava in testa. Gli domandai di sparare ciò che doveva dirmi. Iniziò un lungo tergiversare per poi arrivare al dunque. Mi disse;
“Come se non ti conoscessi, capisco del perché hai voluto fare tutte le trattative da solo, accordi di qua accordi di la, l’arrivo di due aerei separati. Comprendo quello del materiale, trovo surreale quello con le risme della carta e delle biro che qui non scrivono manco sulla merda che cagano e le fantomatiche lattine di coca cola che servivano come para fulmine”
Faccio un’espressione da finto offeso nell’onore e chiedo di sputare il rospo. Lui allora si sfoga;
“Ti conosco da una vita e quindi hai utilizzato le scatole piene di risme di carta per trasportare della droga arrivata dal Sudamerica al porto di Luanda, per poi magicamente finire dentro le scatole al posto delle risme, precedentemente lasciate ai poveri bambini, ovviamente per ogni scatola e stata salvata una risma per poter coprire i panetti ben conservati al’interno delle scatole. Questo anche per le scatole con le belle biro per permettere ai poverelli mocciosi di poter scrivere ma non tutte le penne saranno rimaste in Angola, altre saranno messe sopra ai panetti per camuffare. Sicuramente avrai preparato una doppia bolla di trasporto facendo partire il secondo aereo destinazione Amsterdam con il tesoro proveniente dalla Colombia. E la ciliegina della torta è stata che per evitare problemi l’hai fatta scortare dal’esercito Angolese e tu bello e beato con un alibi di ferro. L’ho sempre detto che sei un genio, dentro ad un qualcosa normale ci aggiungi l’anormale.” Lo guardo senza rispondergli, sorrido e gli lasciai questa convinzione, questo dubbio. E poi diciamocelo chiaro che la vita e semplicemente un fottuto dubbio. In un primo momento avevo io l’insano dubbio che avesse scoperto la mia tresca con sua moglie. Un sospiro di sollievo, fu l’ultimo sospiro di quel mese frenetico, uno dei più veloci della mia vita.

 

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